Vaccino, questioni di libertà
Con l’inizio della campagna vaccinale, da oggi anche in Italia si comincia a vedere un po’ di luce in fondo al tunnel in cui siamo entrati ormai più di dieci mesi fa con l’arrivo da Wuhan del virus. E’ la prima buona notizia dopo tanto tempo, visto che il fantomatico “modello italiano” nella gestione di questa pandemia ci pone, in realtà, fra i primissimi posti al mondo per indice di mortalità ogni 100.000 abitanti, anche a seguito dall’inerzia del Governo nel periodo compreso tra la prima e la seconda ondata.
A questa prima buona notizia dovrà seguire, adesso, un’organizzazione della distribuzione e della somministrazione dei vaccini all’altezza degli obiettivi e – mi permetto di sottolineare – di un Paese che voglia definirsi civile.
C’è però un altro aspetto, urgente, da considerare fin da subito: la volontarietà o meno degli italiani di contribuire al raggiungimento della cosiddetta immunità di gregge, aderendo volontariamente alla campagna di vaccinazione. E’ sulle prime pagine dei quotidiani odierni un dato che, da questo punto di vista, rischia infatti di mettere in crisi l’intera operazione: secondo una rilevazione effettuata presso le residenze per anziani, circa il 70% degli operatori sanitari impiegati in quelle strutture si sarebbero dichiarati indisponibili a farsi vaccinare, per metà perché “no-vax”, per metà perché ritengono di essere poco informati sugli eventuali effetti collaterali.
Si tratta di una particolare categoria, ma probabilmente un analogo sondaggio presso l’intera popolazione italiana darebbe un esito non troppo dissimile.
Che fare, dunque? La scorsa settimana un interessante articolo sul Corriere della Sera, a firma Milena Gabanelli e Simona Ravizza, ha avuto il merito di aprire una strada. Che personalmente mi sento di condividere. In sintesi, poiché per quanto riguarda il numero dei “guariti”, quelli cioè che hanno concluso il percorso Covid e hanno avuto il via libera dalle strutture sanitarie pubbliche per rientrare in comunità, l’Italia è al primo posto a livello europeo, si tratterebbe di intervenire dal punto di vista legislativo per mitigare nei confronti di costoro gli effetti del lockdown e della restrizione delle loro libertà individuali. Questo perché per la scienza medica, il “guarito” dopo aver contratto il virus non è più contagioso. Una condizione che riguarderebbe ormai quasi un milione e mezzo di persone solo in Italia: una platea che, probabilmente non a caso, verrà coinvolta per ultima nell’ambito della campagna vaccinale.
Allo stesso modo, e forse a maggior ragione, anche ai vaccinati dovrebbe essere consentita attraverso una norma “ad hoc” la riammissione alle pratiche, sociali ed economiche, della vita quotidiana, con beneficio non solo individuale, ma per l’intero sistema-paese.
Credo sia giunto il momento in cui il “governo del tempo perduto” prenda consapevolezza del fatto che proprio il tempo è la principale risorsa a non dover essere sprecata. E che c’è l’urgenza di restituire un futuro agli italiani in un clima di pulizia mediatica, che può essere conseguito solo ragionando insieme sui dati quantitativi su cui si fondano le decisioni pubbliche. La scienza non è un affare personale e tantomeno un segreto di Stato. Da qui bisognerebbe ripartire per ristabilire quei diritti fondamentali, la cui violazione è stata severamente denunciata da molti tra i massimi costituzionalisti.
La via dovrà essere progressiva, ma inarrestabile fino ad obiettivo raggiunto. In questi mesi dolorosi e faticosi abbiamo tutti compreso sulla nostra pelle che per tornare alla libertà di prima occorre avviare un processo di liberazione da confinamenti fisici e steccati mentali: non un torneo di conferenze-stampa, dunque, ma un percorso esplicativo sulla valenza immunitaria e sulle ridotte possibilità di ricontagio per chi è uscito dal tunnel della malattia, così come sull’efficacia del vaccino e sulla sua affidabilità farmacologica, per un pieno recupero della potestà di noi stessi e della pienezza del vivere sociale.