Fondi PNRR: perché rinunciarne a una parte non è da escludere a priori

Rinunciare a parte dei soldi del PNRR? Non è da escludere a priori, valutando pro e contro. Spiego il perché.

I numeri sono noti: 750 miliardi di euro a disposizione dei 27 Paesi UE, suddivisi tra una quota di sovvenzioni (circa 360 miliardi) e una quota di prestiti (circa 390 miliardi), di qui al 2026. In questo quadro, le risorse previste per l’Italia sono ingenti, e cioè un totale di 191,5 miliardi, di cui 68,9 come contributi a fondo perduto e 122,6 di prestiti. Il PNRR italiano ha avuto, dunque, la dotazione finanziaria complessiva più ampia, perché qui si è deciso di far ricorso ai prestiti nella misura massima possibile: dei circa 166 miliardi – su 390 complessivi, appunto – cui gli Stati europei hanno scelto di dotarsi ricorrendo a tale ulteriore forma di indebitamento, infatti, quasi il 74% (122,6 miliardi, come dicevamo) è stato appannaggio dell’Italia.

Per fare qualche esempio, la Spagna ha deciso di richiedere e, quindi, impiegare le sole risorse a fondo perduto (circa 70 miliardi), così come la Francia (41 miliardi), la Germania (28 miliardi) e tanti altri Stati meno paragonabili all’Italia per PIL e numero di abitanti.

Il tema, quindi, non è solo se utilizzare i denari del PNRR entro la scadenza del 2026. E’ anche – oserei dire, soprattutto! – come utilizzarli in modo che fruttino più di quanto costino: perché la parte a debito dovrà essere restituita in trent’anni, tra il 2028 e il 2058, ad una cifra presumibilmente vicina 5 miliardi all’anno, anche come conseguenza diretta del recente rialzo dei tassi di interesse. Cifre che dovranno trovare copertura nel bilancio dello Stato italiano: se il PIL dovesse aumentare in modo strutturale, nulla quaestio. Saremmo ampiamente in grado di ripagarli. In caso contrario, il meccanismo sarebbe ahinoi arcinoto: aumento della tassazione e riduzione delle spese.

Come fare? L’unico vero modo è puntare ad investimenti che determinino un deciso rialzo dell’occupazione: incrementare il numero di lavoratori condurrebbe inevitabilmente ad un aumento del PIL e, in ultima analisi, ad un maggiore afflusso di risorse finanziarie, sotto forma di tasse, dirette ed indirette, nelle casse dello Stato.

La carenza di persone “produttive” è il tallone d’Achille del nostro Paese, un problema endemico cui il Governo Meloni ha giustamente assegnato la priorità della propria azione in questi primi mesi: l’Italia ha infatti un tasso di occupazione che, pur registrando a fine 2022 – secondo i dati Eurostat diffusi qualche giorno fa – una crescita dell’1,9% rispetto a dodici mesi prima, arriva al 60,1% della popolazione attiva, a fronte di una media UE che sfiora il 70%. In questo quadro, la Francia a fine 2021 superava il 68% e il Regno Unito, paragonabile a noi per numero di abitanti, era oltre il 75%. Significa che in Italia su 60 milioni di abitanti abbiamo poco più di 23 milioni di occupati che producono reddito, consumi e gettito erariale diretto ed indiretto, mentre in Francia e nel Regno Unito se ne contano certamente più di 30 milioni.

Un investimento è tale solo se produce un risultato più che positivo: prendere soldi in prestito per fare interventi anche necessari, ma che non generino un ritorno dal punto di vista del moltiplicatore e, quindi, anche dell’equilibrio dei conti dello Stato è dunque una scelta che rischia di essere dannosa e che ricadrà sulle spalle delle future generazioni, cioè di chi quei debiti sarà chiamati a ripagarli.

Poiché, per dirla con Milton Friedman, “non esistono pasti gratis”, di fronte ai progetti presentati ai vari livelli – cui “La Verità” proprio in questi giorni sta dedicando un interessante approfondimento – è lecito chiedersi quanto rispondano alla finalità della “ripresa e resilienza” della nostra Nazione. E per alcuni la risposta appare davvero scontata, specie pensando alle risorse impiegate oggi da (far) restituire domani.