25 novembre: una giornata che deve durare tutto l’anno
Ho fatto passare qualche giorno dal brutale omicidio di Giulia – a lei dedico un ricordo carico di affetto, da padre di una figlia un po’ più giovane, e alla sua famiglia un abbraccio pieno di solidarietà umana – per parlare di femminicidio, perché non mi piace rincorrere la cronaca. Alle reazioni di pancia, inevitabili di fronte a tragedie di questa portata, preferisco il ragionamento, quello che distingue – o dovrebbe distinguere – la politica dai tifosi.
Non condivido il clima da caccia alle streghe per cui ogni uomo è colpevole, né penso che un problema di tale portata nella nostra società sia risolvibile con la sola retorica del “mai più”. Anche perché ritengo, non da ora, che di fronte a tragedie che purtroppo ricorrono, anziché “produrre” parole, dovremmo “produrre” esempi.
Sì, perché i problemi sono sempre complessi e come tali vanno affrontati, se l’obiettivo è risolverli e non “segnare” un territorio con la mentalità dei cani ai giardinetti. Lo sapete quando è stata abolita, in Italia, la legge sul delitto d’onore? Nel 1981. Quando IBM lanciava il primo PC e al cinema usciva Indiana Jones, noi finalmente cancellavamo la legge che, di fatto, disponeva il possesso dell’uomo sulla donna. Ma se oggi, 40 anni dopo, avete il coraggio (e ci vuole!) di ascoltare una canzone trap a caso, la donna viene trattata come un oggetto: eppure, è quello che ascoltano i nostri ragazzi, come ha denunciato l’attrice Cristina Capotondi. Parole, le sue, che condivido dalla prima all’ultima.
Pensiamo, dunque, alle principali agenzie educative. È responsabilità della famiglia, dei modelli che vengono inculcati fin da bambini/e, guardando come si comportano papà e mamma? È responsabilità della scuola, dove l’educazione civica fa fatica a ritagliarsi uno spazio, e figurarsi l’educazione sessuale? O di alcuni sport, dove più che alla vittoria dopo una sana competizione si punta all’annullamento dell’avversario, con qualunque mezzo? Ci aggiungiamo i social network, privi di qualsiasi filtro in termini di esibizionismo e non solo e le piattaforme-media, che ormai ci hanno abituato alla violenza? Si potrebbero fare mille altri esempi. Su tutto ciò, che sarebbe sbagliato classificare come causa, si innestano però gli squilibri psichici individuali. Amplificandoli.
Quindi, non c’è niente da fare? No, questo mai. Su ognuno di questi specifici aspetti, e su tutti gli altri che non ho citato, bisogna lavorare ogni giorno e a tutti i livelli. Con l’esempio, appunto. Non mi entusiasmano iniziative come il minuto di silenzio osservato in tutte le scuole, di ogni ordine e grado, martedì scorso: va bene alle medie e alle superiori, se inserito in un percorso educativo ben più ampio; nelle elementari o ancora peggio negli asili, mi lascia perplesso perché c’è tanto effetto ma poca sostanza. Dobbiamo proporre modelli che rifuggano l’egoismo, la violenza, la sopraffazione, la misoginia. Si deve creare un patto sociale, per cui i comportamenti sbagliati vanno denunciati, fin dai posti di lavoro. Si devono rafforzare i legami familiari e amicali – quelli veri, reali, non (solo) “on line” – perché certi meccanismi malati vengano smascherati. Dobbiamo investire, oltre che sulla formazione, sul sostegno psicologico. Ciascuno di noi sa cosa fare nella propria quotidianità: dobbiamo però sforzarci di superare la dimensione solo individuale e agire per far migliorare il comportamento anche a chi ci sta vicino. È il minimo che possiamo fare per Giulia, e per tutte le altre vittime della violenza di alcuni “uomini”.
È il nostro impegno in vista della Giornata contro la violenza sulle donne, che arriva domani ma non deve risolversi in 24 ore, con una strisciata rossa sul viso e una dichiarazione di buoni propositi. Una giornata che deve durare tutto l’anno: banale ribadirlo, un dovere occuparsene.