Investire sul presente a scapito del futuro: le partite IVA e la pensione che non ci sarà
Affrontare il tema delle pensioni è un po’ come affrontare l’idra dalle sette teste. Quando pensi di avere esaurito un punto cruciale, ne spuntano altri sei al suo posto. Perché la previdenza coinvolge gli stipendi, i conti pubblici, la tenuta delle aziende, ma soprattutto il futuro delle persone, una volta che vorranno, e potranno, ritirarsi dal lavoro.
E questa è la grande domanda: potranno? In quanti? A che età? Con quali prospettive? Perché il problema non è soltanto se si potrà andare in pensione a 65, 67, 69 anni e con quota 102, 103 o 105, cioè con una precisa relazione tra l’età anagrafica e gli anni di contribuzione.
Se la politica continua a discutere dell’età pensionabile in relazione agli anni di contributo fa quella che in gergo si chiama “un’operazione per la prossima legislatura”, cioè si occupa del problema nel breve-medio periodo, quando la domanda primaria continuerà ad essere a che età ci si potrà ritirare dal lavoro. E sì, certo, forse si porterà a casa un po’ meno dello stipendio, in molti casi sensibilmente meno: secondo uno studio di Confcooperative, un dipendente che oggi ha 35 anni e lavora da quando ne aveva 29, andrà in pensione nel 2050 con il 69,7% dell’ultimo stipendio, contro circa l’80% di un lavoratore che va in pensione oggi, perché chi si ritira dal lavoro oggi lo fa con una pensione calcolata secondo il sistema retributivo (percepisce cioè una quota dell’ultimo stipendio sancita da norme e accordi), mentre chi lo farà nel 2050 percepirà una pensione calcolata col sistema retributivo (una percentuale fissa di tutti i contributi versati, rivalutati), quindi molto minore. Ma è uno scotto che si può mettere in conto, se si ha finito di pagare il mutuo e non si hanno molte pretese.
Il problema però è che attorno al 2050 andranno in pensione le partite IVA, in particolare alcuni di quelli che ora aderiscono al regime forfettario, con l’aliquota agevolata. Le partite IVA in Italia sono oltre 5 milioni, su circa 23 milioni di lavoratori totali, metà delle quali aderiscono al regime forfettario. Il reddito medio delle partite IVA è attorno ai 31 mila euro, quelle dei forfettari poco sotto ai 13mila.
Questo giro di cifre per dire che i redditi delle partite IVA, e a maggior ragione dei forfettari, producono contributi annuali bassi. Essendo i versamenti previdenziali una percentuale del lordo che varia a seconda dell’istituto di previdenza a cui si è iscritti, per legge, a minore reddito lordo corrisponde minore versamento.
Senza contare, ma contiamola, la situazione legata alla discontinuità retributiva: periodi senza contribuzione, o con contribuzione minima, a seguito di inattività. Un problema che colpisce le partite IVA, ma anche chi, terminato un contratto a termine, non riesce a trovare subito un altro impiego.
Il problema dove sta? Sta nel fatto che ultimamente stiamo usando le partita IVA proprio per ridurre il costo lordo del lavoro: ci lamentiamo del costo del lavoro, giustamente, ma se un dipendente incassa netti 1400 euro, al datore di lavoro ne costa circa 3200, un costo che comprende i contributi previdenziali (diciamo attorno al 28%, cioè 896 euro). Se una partita IVA per portare a casa netti gli stessi 1400 euro incassa 2400 euro lordi al mese, pagherà il 28% di 2000, cioè 672 euro. Oltre 200 euro al mese di differenza, 2400 euro all’anno in meno. Per 41 o 42 anni di lavoro, una partita IVA verserà 101mila euro in meno, senza contare tredicesime, scatti salariali, bonus produzione, trattamenti di fine rapporto e quant’altro (comunque già solo le tredicesime valgono oltre 9mila euro di contributi).
La conclusione è immediata e preoccupante: a parità di netto, le partite IVA forfettarie (circa il 12% dell’attuale popolazione attiva) versano meno tasse, ma questo nei conti dello Stato è ampiamente previsto, ma anche meno contributi previdenziali. La posizione delle partite IVA tradizionale è migliore, ma non di molto. E quindi sono destinati a scegliere tra continuare a lavorare, oppure andare in pensione da poveri, a meno che non siano estremamente previdenti, è il caso di dirlo, e oculati oggi, vivendo con un tenore molto minore di quello che potrebbero per accantonare a sufficienza per il futuro.
Lo stanno facendo? Secondo i dati dell’ANIA, l’associazione delle compagnie di assicurazione, ancora non abbastanza: “In Italia, ancora più che in Europa, non si risparmia abbastanza. Per ridurre il gap previdenziale di quello che sarà nel 2050 il paese più vecchio d’Europa, il nostro, serve convincere i cittadini a un uso più razionale delle risorse finanziarie e avvicinare il risparmio alle forme di previdenza, ancora poco diffuse” si legge nella ricerca.
Che cosa fare? Primo, smettere di usare le partite IVA per ridurre i salari. Questo è un processo culturale, prima di tutto, ma anche legislativo. E le associazioni di categoria e gli ordini professionali devono dire la loro su questo tema. Secondo, invece di incentrare il dibattito su quota 102 e dintorni, si parli seriamente del problema che avremo tra vent’anni o poco più, perché stiamo investendo sul presente a scapito del futuro. Una scelta che è esattamente il contrario di qualsiasi politica sensata: si dovrebbe pensare a misure che tutelino il lavoro dei giovani, visto che al momento chi può guardare con ottimismo alla propria “terza età” sono proprio le generazioni successive ai baby boomer (gli attuali over 55, unici destinatari degli interventi sulle pensioni di questi ultimi anni), ovvero generazione X (23,6% della popolazione in Italia), generazione Y o Millenials (17,3%) e generazione Z (15%). Terzo, provare a prendere spunto dall’operazione-verità che i Paesi del nord fanno per responsabilizzare i giovani nel sapere quale sarà l’importo della loro pensione, finalizzata a promuovere forme di previdenza complementare, anche utilizzando la leva fiscale per favorire forme di “dotazione famigliare” da accantonare sul montante contributivo del lavoratore. Quarto, provare a passare da una quota puramente anagrafica (100, 101 etc.) a una valutazione dell’età pensionabile in funzione del potere d’acquisto.
Noto con piacere e interesse che il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha già espresso l’intenzione di lavorare proprio per le generazioni più giovani, tutte (a parte una piccola parte della generazione X) destinate ad andare in pensione con il sistema totalmente contributivo. E io credo che proprio il tema delle pensioni future sia centrale nel “dare forma e sostanza ad una visione di medio e lungo periodo, capace di costruire l’Italia del dopodomani e che sappia immaginare un futuro per i nostri figli e nipoti”, come riportano oggi gli organi di stampa. Parole che condivido e che vanno nella direzione giusta.