Città Metropolitana, è il momento di cambiare assetto
La Città Metropolitana così non funziona. Anzi, non ha mai funzionato.
A quasi nove anni dalla sua entrata in funzione (era il 1° luglio 2014, a seguito della sua istituzione con la Legge 56/2014, la cosiddetta “Delrio”, ndr), questa consapevolezza si è diffusa anche tra chi, al contrario, a quel tempo magnificava l’idea di un ente di secondo livello, guidato per legge dal Sindaco del Comune capoluogo e amministrato da (pochi) eletti scelti fra la ristretta cerchia degli Amministratori comunali in carica, ovviamente con un “peso specifico” di ciascuno di essi sideralmente sbilanciato a favore di quelli dello stesso Capoluogo e della sua primissima cintura. Oggi lo dicono quasi tutti, tanto che a livello nazionale il Ministro Calderoli ha promesso il ripristino della situazione precedente per i cosiddetti enti di “area vasta”, quelli che fino ad allora avevamo indistintamente chiamato Province.
E Lo dice perfino il vicesindaco metropolitano di Torino, Jacopo Suppo, intervistato da Repubblica che nelle scorse settimane ha lanciato un dibattito su questo tema, riprendendo anche un concetto simile espresso dal vicepresidente della Regione, Fabio Carosso.
Insieme a Suppo, parlano anche alcuni amministratori locali, curiosamente tutti appartenenti a quel centrosinistra che ha voluto una “riforma” così fallimentare, e che oggi, buoni ultimi, mettono in fila le criticità della riforma Delrio.
Da diretta parte in causa – in quanto Consigliere provinciale di Torino “ad honorem” (a meno di cinquant’anni, corro già il rischio di passare per una vecchia gloria!), ma soprattutto come Amministratore in carica (toh, di centrodestra) di un piccolo Comune, e ricordando che in merito avevo presentato in Parlamento una proposta di Legge – voglio dire anche io la mia, soffermandomi sulla sintesi di questo dibattito giornalistico. Che magari sarà brutale, ma rende l’idea: l’Ente Città Metropolitana non funziona. No, non funziona, ed è inutile provare a tirare fuori ipotesi e progetti, come hanno fatto i colleghi intervistati dal quotidiano, per dare un senso ad una supposta riforma che un senso non ha mai avuto e che va modificata, al più presto, ridando in primo luogo ai cittadini il diritto di scegliere gli Amministratori delle Province e Città metropolitane e restituendo a queste ultime il ruolo fondamentale di attuatori delle politiche di area vasta definite dalla programmazione regionale e nelle materie che la Legge affida a questi Enti territoriali.
La strada che possiamo percorrere, a conti fatti, è dunque una sola, visto che l’abolizione delle Province (e delle Città metropolitane) può avvenire solo cambiando la Costituzione, che le prevede espressamente all’art. 114, allo stesso rango di Regioni e Comuni; l’ultimo tentativo di riforma costituzionale, che tra l’altro includeva appunto la modifica dell’art. 114, quella di Renzi per intenderci, è infatti naufragata miseramente sul referendum confermativo, come tutti ben ricordiamo.
La strada da percorrere – dicevo – è una sola e deve prevedere, dunque, la restituzione a questi Enti di quel ruolo di interlocuzione e coordinamento del territorio che la Regione non può svolgere, soprattutto in Piemonte, dove come è noto abbiamo quasi 1200 Comuni, dei quali più di 1000 con meno di 5000 abitanti e più di 500 sotto i 1000. Un ruolo autorevole che passa necessariamente da una legittimazione popolare, attraverso il voto dei cittadini cui va restituita la possibilità di scegliere i Consiglieri e il Sindaco metropolitano, anche perché la formula ibrida dell’elezione di secondo livello con voto ponderato e del Sindaco del capoluogo che assurge di diritto alla carica metropolitana, oltre a generare equivoci e difficoltà di gestione, provoca una diminuzione della fiducia nelle Istituzioni da parte dei cittadini. Ed anche da parte di tanti Amministratori di Comuni medio-piccoli. Ma poi, tanto per guardare a casa nostra, come si può pensare che il sindaco di Torino, con tutti i grattacapi che ha, possa fare anche il sindaco metropolitano senza soccombere? Oppure, come può un singolo Assessore, o un singolo ufficio, della Regione Piemonte, interloquire con tutti questi Enti locali e gestire problematiche simili in situazioni però estremamente diverse?
Attenzione, però. Non è automatico che l’elezione diretta degli Amministratori di Province e Città metropolitane debba per forza determinare anche una spesa significativa o insostenibile per le indennità di carica. Se si parla di taglio di spese per l’esercizio delle funzioni fondamentali, infatti, in questi anni non si sono registrati grandi risparmi per la finanza pubblica, visto che giustamente strutture e personale degli enti provinciali sono rimaste in servizio. Quella del pagamento delle indennità dei politici rimarrebbe dunque l’unica obiezione che potrebbe avere un po’ di eco sui media affetti da populismo giornalistico.
E allora, anche qui, giova ricordare che un Ente autorevole e capace di incidere positivamente sullo sviluppo economico e sulla crescita del benessere nel nostro territorio, come è stata ad esempio proprio la Provincia di Torino, ha avuto per decenni Amministratori in carica di altissimo livello culturale e professionale, cui l’Ente non ha mai riconosciuto indennità da nababbi, bensì un semplice rimborso spese.