I numeri del sistema sanitario regionale: alcune riflessioni
Assistiamo da qualche settimana ad un rinnovato interesse mediatico intorno al tema della sanità. A livello nazionale, come in Piemonte. Sindacati che promuovono manifestazioni, partiti di sinistra che pensano di trovare argomenti per recuperare consensi, dopo che per anni nelle sedi opportune (leggasi: Consiglio regionale) si sono occupati d’altro, e così via. Una lettura superficiale delle cose potrebbe indurci a bollare tutto ciò come una mera fase di pre-campagna elettorale.
Quando si parla di sistema sanitario, anche in Piemonte, qualche riflessione sui servizi offerti ai cittadini-contribuenti va fatta. Mettendo in primo piano gli utenti, quelli cioè che detengono il diritto fondamentale alla salute, come sancito dall’articolo 32 della nostra Costituzione. E che richiedono prestazioni che hanno un costo: ecco perché accanto al tema del diritto alle cure, su cui siamo tutti d’accordo, dobbiamo collocare anche considerazioni economico-gestionali, cioè costi e ricavi.
Tutte quelle materie noiosissime, per quasi tutti, e appassionantissime, per me, e che spesso segnano la linea invisibile oltre la quale non si può andare per diminuire le liste d’attesa, incrementare la territorialità, ridurre le code, aumentare il personale là dove ce ne sia bisogno.
Il rendiconto 2022 della Regione Piemonte ci dice che la spesa corrente per la sanità – quella, cioè, necessaria per far fronte al funzionamento della “macchina”, anno dopo anno, senza quindi considerare gli investimenti – è arrivata a 9,835 miliardi, più dell’80% della spesa regionale di parte corrente. Se si prendono in considerazione anche le spese in conto capitale, cioè appunto gli investimenti, tale incidenza scende a circa il 74%: quota comunque rilevante di risorse pubbliche del nostro bilancio regionale, che non si può aumentare, a meno che non si decida di ridurre ulteriormente gli altri capitoli, evidentemente già ridotti all’osso. Oppure concordando con lo Stato un aumento delle risorse complessive per la sanità, che oggi a livello nazionale sfiorano i 130 miliardi di euro, su un bilancio complessivo che supera i 1000 miliardi.
Questi i freddi numeri, da tenere in considerazione. Specie in un contesto in cui tutti noi abbiamo diritto di rivolgerci al sistema sanitario pubblico, ottenendo prestazioni gratuite o quasi (a seconda dell’ISEE paghiamo un ticket, a meno di esenzioni per patologia), cure e, in alcuni casi, medicinali. E chi paga tutto ciò? La Regione, appunto. E cioè in ultima analisi i cittadini-contribuenti, attraverso la tassazione diretta e indiretta (per esempio l’IVA, a carico di tutti, indistintamente).
Per quanto riguarda la tassazione diretta, cioè l’Irpef con tutte le sue addizionali, vi do un dato soltanto, ma esemplificativo: circa un quarto degli italiani (25,69%, per chi ama le cifre) paga circa i tre quarti delle tasse sulle persone fisiche (70,74% dell’Irpef). Sono gli italiani che dichiarano un reddito lordo superiore ai 29 mila euro all’anno (stiamo parlando di un netto mensile di poco superiore ai 1500 euro).
Per farla breve, un quarto degli italiani si fa carico di quasi tutti i servizi finanziati col gettito Irpef, a cominciare dalla sanità. E lo fa a vantaggio di chi paga molto poco o addirittura nulla, e in cambio di un sistema che, soprattutto in alcune regioni come la nostra, funziona certamente bene, ma può e deve essere migliorato.
E allora? Allora qualsiasi ragionamento sulla sanità o, meglio, sulla sua organizzazione, non può che partire da questo dato: se vogliamo incrementare i servizi bisogna agire su due fronti nazionali e uno locale. Il primo, aumentare l’occupazione, migliorare la produttività e, conseguentemente, far crescere le retribuzioni, facendo così in modo che la contribuzione ai servizi pubblici sia decisamente più ampia e garantisca maggiori risorse complessive. Il secondo una maggiore attenzione all’equità fiscale e al contrasto ai “furbetti” che fan pagare i “soliti noti”, cioè quel quarto di italiani che dichiarano al fisco tra 29mila e 60mila euro lordi all’anno (circa 7 milioni su 42 milioni di dichiarazioni). Terzo, a livello locale, impiegare al meglio i pochi fondi disponibili per gli investimenti in edilizia sanitaria, evitando di disperdere energie e tempi per il falso problema della localizzazione delle strutture ospedaliere (una sorta di sindrome “Nimby” al contrario) e, soprattutto, promuovere un’alleanza sempre più stretta con il privato accreditato, in modo da mettere a fattor comune modalità organizzative che generino efficacia, efficienza ed economicità. Gli esempi positivi, qui e in altre Regioni come il Veneto e l’Emilia Romagna, non mancano.
Non serve, dunque, inseguire le polemiche o i localismi. Che – do una notizia! – non portano un voto in più. Sul diritto alla salute serve fare squadra, con una visione complessiva del quadro. Perché come disse Al Pacino in Ogni maledetta domenica: “O risorgeremo come collettivo o saremo sconfitti individualmente”.