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🛑 Bene Draghi, su gestione dati evidente cambio di passo 🛑

Massima trasparenza sui dati delle vaccinazioni, Regione per Regione, classi di età per classi di età. Con l’obiettivo di avere un monitoraggio costante e di ottenere nel minor tempo possibile un numero di immunizzazioni che ci consenta di pianificare la riapertura del Paese, a cominciare dalla scuola e da tutte quelle attività economiche che più di tutte hanno pagato il prezzo delle restrizioni. 

È questo uno dei passaggi più significativi dell’intervento odierno del Presidente Mario Draghi alla Camera dei Deputati, nella sua informativa in vista del Consiglio Europeo del 25/26 marzo prossimi. Un passaggio che mi sento di condividere e di sottolineare, anche per segnalare l’assoluta discontinuità con la gestione dei dati del Governo precedente. 

Si pensi, a tal proposito, all’assenza di una banca dati che indichi dove siano avvenuti gli ormai, e purtroppo, più di 100.000 decessi causati dal virus proveniente da Wuhan, se in un reparto ospedaliero ordinario o in terapia intensiva, se in una RSA o a domicilio; o si pensi ai dati relativi ai 21 indicatori che sono alla base del processo che determina le varie “colorazioni” regionali, su cui proprio oggi ho presentato un’interrogazione. 

Bene, dunque, questo cambio di passo sui dati delle vaccinazioni da parte del Governo Draghi: anche perché potrebbe essere opportuno verificare all’interno del tavolo tecnico previsto dall’articolo 56 del Dpcm dello scorso 2 marzo la possibilità di procedere all’aggiornamento dei parametri per la valutazione del rischio epidemiologico, introducendo proprio il numero di vaccinati come elemento di mitigazione delle restrizioni.

Grande Torino, serve un riequilibrio territoriale tra capoluogo e provincia

Meglio essere al primo posto in un sistema debole o all’ultimo posto in un sistema forte?

Sullo sfondo di questa domanda un po’ manichea, nella fase politica che dura da trent’anni, Torino ha spesso trasmesso l’idea di volersi arroccare su un primato autoreferenziale e indifferente all’erosione che, per effetto dello sganciamento dalla città fordista, si stava consumando nella mentalità e nelle certezze economiche e sociali, sia della città stessa, sia del suo territorio provinciale.

Ora che questa fase è giunta (forse) al capolinea e la volontà di mantenere una prima posizione nel concerto delle metropoli europee si fa vitale per immaginare un futuro, il tema all’ordine del giorno non può che essere il riequilibrio territoriale, e cioè la connessione tra città e provincia. Processo questo che trova, tuttavia, nella Città metropolitana uscita dal cappello della legge Delrio, l’ostacolo di un’istituzione priva di peso specifico perché non legittimata nella scelta della sua governance dal consenso popolare.

In questo contesto, l’influenza del capoluogo sulla vasta area circostante si è manifestata, anche secondo il nuovo Piano strategico, sotto forma di “presenza coloniale”, percepita dai territori con il disagio dell’abbandono tipico dei figli non riconosciuti.

Qui sta il deficit della politica difficilmente superabile con le sole misure, per quanto impattanti, del PNRR. Qui, però, sta anche il terreno più fecondo per il dibattito e il confronto. Delineare misure per realizzare una transizione infrastrutturale, digitale, ecologica, partecipativa e rigenerativa dalla metropoli “diminuita” di oggi alla metropoli “aumentata” di domani è un esercizio necessario e suggestivo.

Credo sarebbe importante anche riconsiderare la forma della città e delle sue pertinenze territoriali, riconoscendo che il primo passo da fare è mettere mano ad un nuovo piano regolatore per Torino, perché quello del 1995, redatto in funzione dei settori centrali della città e della visione politica ritenuta in quel periodo strategica, si è poi mostrato di respiro non sufficiente a supportare il passaggio dalla grande manifattura al distretto del turismo, della cultura e dei servizi. C’è chi sottolinea a questo proposito che senza industria non c’è innovazione e che la sola transizione possibile per una città industriale è quella che porta dall’industria originaria all’imprenditoria originale e creativa, ma pur sempre basata su solidi apparati organizzativi e produttivi.

In seconda istanza, c’è bisogno di far valere le funzioni di programmazione e pianificazione che la legge istitutiva prevede per la Città metropolitana, in modo tale da concertare con gli altri poli urbani e le zone omogenee intercomunali una direttrice di sviluppo sui versanti dell’urbanistica, della mobilità, dell’alta formazione universitaria e amministrativa, del benessere e della sicurezza dei cittadini. 

Superare il divario tra centro, periferie e territori dovrebbe essere l’obiettivo di un’unica politica di coesione, attraverso la messa in opera di interventi infrastrutturali non più rinviabili, quali la chiusura dell’anello tangenziale di Torino, il collegamento tra Caselle, l’alta velocità ferroviaria e i principali centri della provincia, una nuova stazione proprio sulla linea AV Torino-Milano in una città crocevia ferroviario come Chivasso, una linea metropolitana che si estenda a nordest e a sudovest della Città fino alla prima cintura, una connessione dati ultraveloce che metta tutti i territori alla pari.

Ciò significa andare ben oltre un generico policentrismo. Il territorio metropolitano è già policentrico: lo sono le periferie con le loro complesse identità di quartiere, così come i Comuni della prima e seconda cintura; altrettanto lo sono insediamenti come Pinerolo, Ivrea, Chivasso o Susa. Ciò che manca a queste centralità è il potere decisionale di investire in una logica di area vasta.

Certo non è facile immaginare una riforma, che non potrebbe attuarsi a Costituzione invariata. Tuttavia, se è un tema di attualità la proposta di trasformare Roma Capitale in città-regione, perché non estendere questa argomentazione ad altre Città metropolitane?

Non c’è metropoli europea di spicco che non si configuri istituzionalmente come regione urbana. Al confronto, per le metropoli italiane il destino di rimanere metropoli diminuite pare sormontabile solo a patto di dotarle di un’adeguata governance. E visto che il nostro Paese si è sempre identificato più nelle città che nelle regioni, l’esempio tedesco potrebbe aiutarci: Berlino, Amburgo e Brema sono città-regioni o per meglio dire città-stato. A Milano da tempo se ne parla. Perché non iniziare a parlarne anche a Torino, abbandonando per una volta l’understatement sabaudo?

Piccoli Comuni, è importante ripristinare la possibilità di spostamento

L’entrata in vigore dell’ultimo Decreto Legge del 13 marzo ha lasciato irrisolta la possibilità per chi risiede in Comuni con meno di 5000 abitanti di spostarsi nel raggio di 30 km, finora sempre prevista da tutti i vari Decreti precedenti, anche in zona rossa. Quantomeno, è questa la posizione che emerge anche dalla lettura delle FAQ sul sito del Ministero dell’Interno. 

Sarebbe necessaria, dunque, un’interpretazione meno restrittiva, e su questo mi associo alla richiesta di UNCEM di ripristinare questa possibilità, al netto del colore in cui si trova la propria zona. 

Sarebbe un importante segno di attenzione nei confronti di piccole comunità locali, che rappresentano circa il 70 per cento dei Comuni in Italia, la maggior parte dei quali in Piemonte e Lombardia, dove può essere molto più complesso convivere con quest’isolamento rispetto a chi abita in grandi centri urbani. 

Mi auguro che il Governo Draghi condivida questa richiesta di buon senso e che chiarisca come per i residenti nei piccoli Comuni permanga la possibilità di accedere ai servizi essenziali anche varcando i confini dei loro territori in una fascia chilometrica adeguata.

Fisco, necessaria proroga scadenza conservazione fatture elettroniche

“L’adempimento relativo alla conservazione delle fatture elettroniche del 2019 si sta rivelando  più difficoltoso del previsto. La procedura comporta infatti anche il caricamento manuale delle singole fatture. E’ necessario quindi prorogare con urgenza il termine del 10 marzo, peraltro già scaduto, al fine di consentire ai contribuenti di ottemperare al disposto di legge, allineando la scadenza a quella per il servizio dì consultazione delle fatture, recentemente spostata al 30 giugno”. Lo dichiara in una nota Carlo Giacometto, componente della Commissione Finanze e capogruppo di Forza Italia in Commissione di vigilanza sull’Anagrafe tributaria, che ha presentato un’interrogazione al Governo.
“È opportuno che l’incombenza, relativa al caricamento nel cassetto fiscale di ciascun contribuente delle fatture elettroniche emesse e ricevute nell’anno imposta 2019 precedentemente all’adesione al servizio da parte del contribuente, sia assunta direttamente dall’Agenzia delle Entrate. Gli operatori del settore sono peraltro già oberati da molteplici adempimenti derivanti dalla copiosa legiferazione d’urgenza varata dal Governo precedente nel tentativo di affrontare le gravi problematiche derivanti dalla pandemia. Serve pertanto un intervento di semplificazione da parte del nuovo Governo per scongiurare un ulteriore aggravio per professionisti e imprese che, in caso di mancato adempimento nei termini stabiliti dalla legge, oggi rischiano sanzioni da mille a 8 mila euro. I contribuenti devono essere messi nelle condizioni di poter adempiere all’obbligo fiscale senza un’inutile corsa contro il tempo. L’auspicio è che anche nel rapporto tra Amministrazione finanziaria e contribuenti arrivino fin da subito segnali di discontinuità rispetto al recente passato”.

PA, la ricostruzione dell’Italia parta da questo asset strategico

La ricostruzione deve partire dalle Istituzioni, a partire da quelle che operano più a stretto contatto con i cittadini e con le imprese: le amministrazioni pubbliche, dal comparto sanità alle forze dell’ordine, dagli enti territoriali alle articolazioni dello Stato sul territorio. E’ sulla valorizzazione di questo asset, composto da 3,2 milioni di donne e uomini, che si deve lavorare nei prossimi due/tre mesi per operare una delle riforme più importanti per poter disporre dei finanziamenti del Recovery Fund.

Sono quattro i pilastri del piano d’azione del Governo Draghi, illustrato oggi dal Ministro della PA Renato Brunetta nel corso dell’audizione congiunta con le Commissioni Affari Costituzionali e Lavoro del Senato e della Camera dei Deputati.

In primo luogo, una nuova modalità di accesso alla PA, attraverso un reclutamento più rapido che in poche settimane possa consentire di superare le criticità del mancato turn-over e, soprattutto, di integrare gli organici delle nostre Amministrazioni pubbliche per far fronte alla gestione del PNRR, magari attraverso specifici accordi con gli ordini professionali.

Poi, l’obiettivo di una “buona amministrazione”, attraverso un grande processo di semplificazione degli adempimenti, di ingegnerizzazione dei processi, di verifica dei risultati e di estensione del principio del silenzio-assenso.

Quindi, un investimento importante in termini di formazione professionale del capitale umano, per recuperare il gap che si è originato negli ultimi anni.

Infine, una vera digitalizzazione, intesa non come mera sostituzione di hardware, ma come un approccio basato sulle esigenze di cittadini e imprese, utilizzando le tecnologie più avanzate per ampliare la gamma dei servizi offerti dalla PA alla comunità nazionale.

Chivasso, Hydrogen City del Piemonte. Crediamo nel progetto e lavoriamoci

Sull’ipotesi di Gigafactory a Scarmagno non ho potuto ancora conoscere i dettagli dell’operazione, che verranno resi pubblici nel pomeriggio odierno in Confindustria Canavese. Nè ho mai incontrato i promotori della Italvolt. Pertanto, a fronte dei pochi numeri cosiddetti “macro” resi pubblici, cioè l’entità dell’investimento previsto e il numero dei potenziali posti di lavoro, diventa difficile fare un raffronto con altre aree che avrebbero potuto ospitare un impianto produttivo del genere.

Aspetterei, dunque, il piano industriale per esprimermi sull’ipotesi che lo stesso sindaco di Chivasso Claudio Castello aveva lanciato nei mesi scorsi in merito ad un utilizzo in tal senso dell’area ex Lancia. Di certo, le dimensioni della Gigafactory, e quindi l’estensione dell’area necessaria, rappresentano una variabile da tenere in considerazione.

Ciò premesso, penso però che la competizione tra territori debba svolgersi anche rispetto alla vocazione che un territorio vuole darsi in termini di prospettiva, sfruttando le sue potenzialità e valorizzando i propri asset. In tal senso, tra le altre cose la Città di Chivasso è certamente da sempre un importante crocevia ferroviario.

E allora, vista la probabile affermazione nei prossimi anni dell’idrogeno green come energia per l’industria e per la mobilità, perché non pensare a Chivasso come luogo idoneo per la progettazione e la realizzazione di un centro per la produzione, lo stoccaggio e la distribuzione dell’idrogeno?

Questo innovativo sistema di alimentazione, infatti, trasformerà entro i prossimi dieci anni i servizi ferroviari del futuro, specie nelle regioni, come il Piemonte, in cui oggi si trovano numerose tratte ferroviarie non elettrificabili. Si pensi, a tal proposito, alle potenzialità di tanti collegamenti ferroviari esistenti, ma in alcuni casi sospesi da qualche anno, se si potesse abbandonare l’alimentazione a gasolio – che al momento caratterizza almeno un terzo dei treni in circolazione – e consentire l’ingresso di treni a idrogeno nel passante di Torino, in arrivo diretto da territori della seconda e terza cintura!

Chivasso, con la sua collocazione strategica nel reticolo ferroviario, potrebbe configurarsi come una vera e propria Hydrogen City, destinando a ciò l’area che si trova a nord-est della città, nei pressi di quella che dovrà essere la stazione AV Porta Canavese-Monferrato. E magari ipotizzando di realizzare qui anche il Centro Nazionale di Alta Tecnologia per l’Idrogeno, per il quale nei giorni scorsi l’Assessore regionale all’Ambiente Matteo Marnati ha candidato il Piemonte.

Classificare le Regioni sulle base del numero di vaccinazioni, superando l’indice RT

Superare il sistema di classificazione cromatica delle Regioni basato principalmente sull’indice di trasmissione RT, cioè di fatto sulla capacità di tracciamento dei contagi tramite i tamponi, e orientarsi sul numero dei vaccinati e, perché no, delle persone guarite: potrebbe essere questo l’indicatore di risultato utile di qui in avanti per definire l’allentamento o meno delle restrizioni nei singoli confini regionali, saggiando nel contempo il livello di fuoriuscita dalla crisi pandemica.

In questo modo, avremmo colorazioni territoriali più trasparenti, motivate e gradualmente più accettabili e leggere, e le Amministrazioni regionali sarebbero incentivate ad organizzare la campagna di distribuzione e somministrazione in modo rapido e capillare, coinvolgendo le strutture pubbliche e private, stipulando accordi con le farmacie e con le professionalità del comparto sanitario, nel solco di quanto già predisposto proprio in questi giorni dalla Regione Piemonte. Il tutto, con l’obiettivo di raggiungere l’immunità di gregge il prima possibile e ripristinare finalmente quel clima di fiducia che è alla base di ogni ripartenza e crescita economica.

Certo, andrà preventivamente risolto il tema non semplice dell’approvvigionamento del vaccino anti-Covid19 presso le varie case farmaceutiche produttrici. Un aspetto, quest’ultimo, in capo alla struttura commissariale nazionale, che sta già subendo ritardi e che, al momento, ci ha consentito di vaccinare appena il 2% di italiani, a fronte di altri Paesi che sono molto più avanti, con Israele che si pone nettamente in testa di questa speciale classifica con il suo 40% di vaccinati sul totale della popolazione. E lo stesso obiettivo di 6 milioni di italiani, cioè il 10% della popolazione fra over 80 e personale sanitario, previsto entro fine marzo 2021 dal piano vaccinale presentato da Arcuri nel dicembre scorso, dovrà essere aggiornato e migliorato.

Occorre pertanto fare ogni sforzo per centrare l’obiettivo di ridurre nettamente i tempi della campagna di vaccinazioni, impiegando le risorse economiche necessarie a tal fine e disponibili anche alla luce del nuovo scostamento di bilancio per l’anno 2021 di circa 32 miliardi, approvato ieri dal Parlamento all’unanimità da tutte le forze politiche.

Dpcm, sulle seconde case un ravvedimento tardivo

La possibilità di raggiungere la seconda casa fuori dai confini regionali, novità che emerge da una lettura in controluce del nuovo dpcm appena entrato in vigore, è una tardiva correzione di un grave errore precedente, come giustamente è stato osservato nei giorni scorsi dal Presidente di Confedilizia Giorgio Spaziani Testa.

Si tratta, infatti, di consentire a tante famiglie di poter finalmente tornare a disporre di un proprio bene patrimoniale, che nel frattempo ha continuato ad essere gravato da IMU, Tari e altre spese fisse, pur essendone stato precluso per mesi l’utilizzo da parte del Governo Conte. Oltre a rallegrarsi per questo esito di assoluto buonsenso, seppur tardivo e, secondo alcune “veline” fatte circolare ieri, addirittura ancora sospeso in attesa di un’interpretazione in tal senso definitiva da pubblicarsi nella giornata odierna all’interno delle ormai celeberrime FAQ sul sito del Governo, bisognerebbe interrogarsi sulle motivazioni scientifiche che hanno spinto Conte, Speranza e Franceschini ad impedire per mesi, in modo del tutto irrazionale, l’uso delle abitazioni situate fuori Regione, a differenza di quanto invece consentito per quelle ricomprese nei confini regionali del territorio di residenza abituale. Quale sarebbe stato l’impatto in termini di limitazione dei contagi della chiusura delle prime rispetto alle seconde?

E, in fatto di certezza del diritto e di chiarezza nella comunicazione ai cittadini, subissati ormai da quasi un anno da dirette televisive, on line e da una sorta di ipertrofia normativa, è lecito chiedersi: perché la piccola libertà ritrovata di poter finalmente raggiungere casa propria deve emergere in modo indiretto e per confronto con i dpcm precedenti, senza una previsione immediatamente comprensibile a tutti ed esplicita?

Nucleare e Cnapi, prima di tutto occuparsi di smantellare i siti temporanei attivi

Non sarà certo la sindrome “Nimby” ad influenzare e a caratterizzare il comportamento delle comunità piemontesi, i cui territori sono stati individuati come potenzialmente idonei per la realizzazione del deposito nazionale dei rifiuti radioattivi. Nei prossimi mesi, infatti, ci sarà tempo e modo per le Amministrazioni e per le popolazioni coinvolte, sia nell’area del chivassese, sia nell’area sud di Torino, sia nella provincia di Alessandria, per consultare i documenti resi pubblici da Sogin, dopo il nulla osta arrivato solo oggi da parte del Ministero dello Sviluppo Economico e del Ministero dell’Ambiente, e per mettere a disposizione le proprie controdeduzioni.

Nel corso di quel dibattito pubblico, infatti, dovranno emergere tutti gli aspetti del progetto preliminare che ha individuato 67 siti potenzialmente idonei in Italia, le criticità e le eventuali opportunità, inclusi i doverosi benefici economici e di sviluppo territoriale connessi alla realizzazione delle opere. Allo stesso tempo, si dovrà prevedere un preciso percorso di bonifica e di smantellamento della ventina di siti temporanei attualmente in attività, con tempi e modi preliminarmente definiti.

E, proprio a questo proposito, oggi sarebbe piuttosto urgente ampliare la platea dei beneficiari delle compensazioni nucleari per quelle comunità che si trovano proprio nei pressi dei depositi temporanei, rivedendo i criteri attualmente basati sui soli confini amministrativi comunali e non, come sarebbe molto più equo, con la distanza chilometrica dal sito.

E’ il caso, ad esempio, di tanti Comuni della Città metropolitana di Torino, che si trovano a poca distanza in linea d’aria dall’impianto Eurex di Saluggia (VC). Quelle comunità locali, paradossalmente, finora non hanno mai ricevuto alcun tipo di compensazione economica, pur essendo state per molti anni esposte ad un rischio anche maggiore, tuttora esistente, a causa della vicinanza di quel deposito temporaneo ai pozzi dell’Acquedotto del Monferrato che provvede alla zona.

E’ l’obiettivo di una mia proposta di legge e di numerosi miei emendamenti in tal senso, che ahimè finora non hanno trovato accoglimento dalla maggioranza giallorossa, ma che non smetterò di riproporre nei prossimi provvedimenti, a maggior ragione dopo la notizia odierna.

Cashback, esperimento fallito. Basta con i microbonus

Con la fine del periodo sperimentale, iniziato l’8 dicembre scorso e concluso con l’ultimo giorno dell’anno, possiamo fare un primo bilancio del cosiddetto “extra cashback di Natale”. Una misura che l’attuale Presidente del Consiglio aveva illustrato con grande enfasi e con tanto di slide dedicata durante la conferenza stampa del 3 dicembre scorso e che, nelle intenzioni del Governo, avrebbe dovuto rappresentare un modo per favorire i consumi interni presso le attività del nostro commercio di vicinato, pesantemente colpite dalle restrizioni del primo e del secondo lockdown.

E qual è stato il risultato? Se, da un lato, la spesa degli italiani nel periodo natalizio ha segnato un crollo, con una contrazione di circa 2 miliardi rispetto all’anno precedente secondo i dati del Codacons (-20%), dall’altro lato i circa 5,8 milioni di italiani che hanno attivato il cashback tramite l’app IO avranno in media poco più di 35 euro di rimborso sugli acquisti effettuati in questo periodo. Ciò in virtù della copertura di bilancio prevista dal Governo per tale misura, circa 228 milioni di euro per il 2020. Una dotazione finanziaria che, come chiaramente indicato nel decreto attuativo, non potrà essere superata, con la conseguente riduzione proporzionale del rimborso spettante ad ogni cittadino per gli acquisti effettuati nel dicembre dell’anno scorso. Altro che i 150 euro a persona promessi!

Insomma, se il duplice obiettivo era sostenere il commercio tradizionale e, attraverso un meccanismo che ricorda molto vagamente il “contrasto di interessi” in vigore in altri Stati, favorire i consumatori, allora abbiamo già chiaro l’esito: non raggiunto. E visto che tale provvedimento sarà in vigore ancora per un altro anno e mezzo fino alla fine del primo semestre 2022, con una dotazione finanziaria di ulteriori 4,1 miliardi, addirittura e in modo del tutto inopportuno proveniente dalle risorse del Recovery Fund, la lettura attenta di questi primi indicatori di risultato consiglia di abbandonare una volta per tutte le logica dei microbonus che hanno già dimostrato la propria inefficacia, impiegando risorse così ingenti per misure strutturali e che abbiano davvero un impatto sull’economia reale del nostro Paese, a cominciare da un non più rinviabile taglio delle tasse per imprese e famiglie.