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Vaccino, questioni di libertà

Con l’inizio della campagna vaccinale, da oggi anche in Italia si comincia a vedere un po’ di luce in fondo al tunnel in cui siamo entrati ormai più di dieci mesi fa con l’arrivo da Wuhan del virus. E’ la prima buona notizia dopo tanto tempo, visto che il fantomatico “modello italiano” nella gestione di questa pandemia ci pone, in realtà, fra i primissimi posti al mondo per indice di mortalità ogni 100.000 abitanti, anche a seguito dall’inerzia del Governo nel periodo compreso tra la prima e la seconda ondata.

A questa prima buona notizia dovrà seguire, adesso, un’organizzazione della distribuzione e della somministrazione dei vaccini all’altezza degli obiettivi e – mi permetto di sottolineare – di un Paese che voglia definirsi civile.

C’è però un altro aspetto, urgente, da considerare fin da subito: la volontarietà o meno degli italiani di contribuire al raggiungimento della cosiddetta immunità di gregge, aderendo volontariamente alla campagna di vaccinazione. E’ sulle prime pagine dei quotidiani odierni un dato che, da questo punto di vista, rischia infatti di mettere in crisi l’intera operazione: secondo una rilevazione effettuata presso le residenze per anziani, circa il 70% degli operatori sanitari impiegati in quelle strutture si sarebbero dichiarati indisponibili a farsi vaccinare, per metà perché “no-vax”, per metà perché ritengono di essere poco informati sugli eventuali effetti collaterali.

Si tratta di una particolare categoria, ma probabilmente un analogo sondaggio presso l’intera popolazione italiana darebbe un esito non troppo dissimile.

Che fare, dunque? La scorsa settimana un interessante articolo sul Corriere della Sera, a firma Milena Gabanelli e Simona Ravizza, ha avuto il merito di aprire una strada. Che personalmente mi sento di condividere. In sintesi, poiché per quanto riguarda il numero dei “guariti”, quelli cioè che hanno concluso il percorso Covid e hanno avuto il via libera dalle strutture sanitarie pubbliche per rientrare in comunità, l’Italia è al primo posto a livello europeo, si tratterebbe di intervenire dal punto di vista legislativo per mitigare nei confronti di costoro gli effetti del lockdown e della restrizione delle loro libertà individuali. Questo perché per la scienza medica, il “guarito” dopo aver contratto il virus non è più contagioso. Una condizione che riguarderebbe ormai quasi un milione e mezzo di persone solo in Italia: una platea che, probabilmente non a caso, verrà coinvolta per ultima nell’ambito della campagna vaccinale.

Allo stesso modo, e forse a maggior ragione, anche ai vaccinati dovrebbe essere consentita attraverso una norma “ad hoc” la riammissione alle pratiche, sociali ed economiche, della vita quotidiana, con beneficio non solo individuale, ma per l’intero sistema-paese.

Credo sia giunto il momento in cui il “governo del tempo perduto” prenda consapevolezza del fatto che proprio il tempo è la principale risorsa a non dover essere sprecata. E che c’è l’urgenza di restituire un futuro agli italiani in un clima di pulizia mediatica, che può essere conseguito solo ragionando insieme sui dati quantitativi su cui si fondano le decisioni pubbliche. La scienza non è un affare personale e tantomeno un segreto di Stato. Da qui bisognerebbe ripartire per ristabilire quei diritti fondamentali, la cui violazione è stata severamente denunciata da molti tra i massimi costituzionalisti.

La via dovrà essere progressiva, ma inarrestabile fino ad obiettivo raggiunto. In questi mesi dolorosi e faticosi abbiamo tutti compreso sulla nostra pelle che per tornare alla libertà di prima occorre avviare un processo di liberazione da confinamenti fisici e steccati mentali: non un torneo di conferenze-stampa, dunque, ma un percorso esplicativo sulla valenza immunitaria e sulle ridotte possibilità di ricontagio per chi è uscito dal tunnel della malattia, così come sull’efficacia del vaccino e sulla sua affidabilità farmacologica, per un pieno recupero della potestà di noi stessi e della pienezza del vivere sociale.

Imu, il tassametro gira… oltre al danno, la beffa

Domani scade il termine per il pagamento del saldo dell’IMU, un’imposta patrimoniale che grava sulle spalle dei proprietari di case, negozi, box, aree edificabili, capannoni e terreni per circa 22 miliardi annui e che rappresenta uno dei motivi principali del crollo del mercato e dei valori immobiliari degli ultimi anni nella quasi totalità dei Comuni italiani.

Un’imposta particolarmente impattante per le tasche degli italiani che hanno investito i propri risparmi nel mattone, specie in un anno particolare come quello in corso. Nel 2020, infatti, agli immobili da tempo sfitti per assenza di inquilini o vuoti in mancanza di acquirenti si sono aggiunti quelli che erano stati adibiti per la locazione dei turisti e degli studenti fuori sede, che la pandemia ha reso inutilizzabili e la cui rendita si è azzerata. Senza considerare quelle che il Governo ha definito in modo improprio ‘seconde case’, che sono rimaste inaccessibili ai loro legittimi proprietari per decreto, sia nel primo, sia nell’attuale lockdown, perché fuori dal territorio regionale. E che addirittura non potranno essere raggiunte, se Conte e i suoi Ministri cambieranno ancora idea per le festività natalizie, neppure nel caso siano situate all’interno della stessa Regione, ma fuori dal Comune di residenza. Per questi immobili, oltre alla tariffa rifiuti da pagare, pur non avendo, di fatto, usufruito di alcun servizio quest’anno, anche l’IMU ‘piena’.

Insomma, la realtà è che il tassametro a carico degli italiani continua a girare inesorabile, senza la previsione di alcuno sgravio per chi, a causa delle scelte del Governo Conte spacciate per misure per il contenimento della diffusione del virus cinese, non può usufruire di un proprio bene, spesso acquistato al prezzo di enormi sacrifici. La classica beffa, oltre al danno.

PA, lo sciopero voluto dai sindacati è intempestivo ed è un boomerang per i lavoratori pubblici

Al di là della partecipazione che si registrerà alla fine di questa giornata, che sono certo sarà molto inferiore alle aspettative dei promotori, lo sciopero della pubblica amministrazione, indetto per oggi dai vertici dalle principali organizzazioni sindacali, rischia di essere un boomerang per tutti i lavoratori del settore pubblico. Era proprio il caso di arrivare a tanto, specie in un momento come l’attuale, caratterizzato da almeno un milione di lavoratori dipendenti del settore privato a rischio licenziamento e milioni di lavoratori autonomi, partite IVA e professionisti in seria difficoltà per via delle restrizioni imposte dai dpcm del Governo Conte?

Questa protesta come minimo intempestiva, infatti, avrà come unico esito quello di consegnare all’opinione pubblica l’immagine di una distanza sempre maggiore fra chi, durante questa pandemia, ha comunque visto garantita la propria retribuzione e chi, al contrario, non ha avuto alcuna tutela, a parte i cosiddetti ristori, spesso del tutto insufficienti e, in tanti casi, addirittura inesistenti.

Nel merito, è evidente che la tutela e la valorizzazione del personale della PA, a cominciare dai comparti della sanità e della pubblica sicurezza, sia un elemento su cui il Governo debba impegnarsi: è per questo che il Ministro Dadone, che dichiara di far fatica a comprendere le ragioni dello sciopero odierno di CGIL-CISL-UIL, dovrebbe invece occuparsi di tutelare il comparto, magari prendendo posizione all’interno del Consiglio dei Ministri a favore dell’obbligo di individuare il contingente di personale delle strutture di missione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza fra i dirigenti e funzionari già in carico degli organici delle pubbliche amministrazioni, e non sulla base di una scelta fiduciaria e senza alcuna selezione meritocratica che è, al contrario, la direzione intrapresa dal Governo di cui fa parte.

DL 158/2020 e Dpcm 3 dicembre, correggere in Parlamento le misure previste per Natale

Le evidenti storture e iniquità del decreto legge 158 del 2 dicembre scorso e del conseguente Dpcm 3 dicembre dovranno essere corrette in Parlamento e non tramite FAQ sul sito del Governo, che rischiano di aggiungere confusione a confusione. Bene, dunque, l’istanza di Forza Italia e dell’intero centrodestra finalizzata ad avviarne subito l’iter di conversione nelle Aule parlamentari, introducendo quelle modifiche richieste a gran voce da Regioni, Comuni e da tanti cittadini che, in questi giorni, stanno facendo sentire la propria contrarietà rispetto ad alcune restrizioni palesemente insensate.

Fra queste, certamente l’irragionevole tema dei confini comunali che non si possano varcare, neanche in zona gialla, a Natale, Santo Stefano e Capodanno: si tratta di una limitazione agli spostamenti che molto probabilmente è stata ideata da chi ha scarsa dimestichezza con la geografia del nostro Paese, specie del nord, dove ci sono centinaia di Comuni sotto i mille abitanti, costituiti magari da frazioni raggiungibili solo attraversando altri confini comunali e il più delle volte totalmente sprovvisti di attività commerciali.

Oppure, la necessità di chiarire, eliminandolo, il concetto giuridicamente indefinito di “seconde case” introdotto al comma 2 dell’articolo 1, e il conseguente divieto di raggiungerle dopo il 21 dicembre se situate fuori Regione. Nella legislazione italiana, infatti, quella locuzione non esiste e già questo dovrebbe imporre una modifica. Ai fini fiscali, infatti, si parla di abitazione principale e di altri fabbricati, a loro volta classificati nelle varie categorie. In più, è da sanare la disparità di trattamento di chi si trova a non poter disporre per legge di un proprio bene, perché al di là di un confine amministrativo, rispetto a chi abbia la fortuna di essere proprietario di un immobile nella Regione di residenza: il tassametro, costituito da IMU e TARI, continua infatti a girare e a costituire una spesa importante per tutti, senza che, né ora, né per il precedente lockdown, sia stato previsto alcuno sgravio fiscale o tariffario per chi è stato, di fatto, espropriato del proprio diritto di proprietà.

Buone notizie per il centrodestra di Torino. Forza Italia c’è

La prima buona notizia di oggi è che il centrodestra torinese è diventato finalmente attrattivo nei confronti di tante persone che in questa fase, a differenza del passato, sono pronte ad apportare il proprio valore aggiunto nell’Amministrazione cittadina e metropolitana, auspicabilmente in ogni ruolo cui dovranno, se vorranno, misurarsi.

La seconda, anche se ormai è un dato di fatto da qualche anno, è che tutti i partiti della coalizione condividono la necessità di fare fronte comune e di non ripetere, quindi, gli errori del 2016, quando si scelse di alimentare le divisioni, con il risultato scontato di consentire al partito di Grillo e Di Maio di andare al ballottaggio contro Fassino.

Bene, dunque, che Paolo Damilano abbia rotto gli indugi e abbia deciso di presentare un suo movimento civico per la Città. Importante, poi, che Fratelli d’Italia abbia ribadito la necessità di una sintesi a livello nazionale, sulla base ovviamente anche delle indicazioni di chi, da anni, fa politica sul territorio torinese. Molto opportuno, infine, che Forza Italia con il suo coordinatore cittadino Marco Fontana abbia sottolineato ancora una volta il valore di una disponibilità alla candidatura – quella di Claudia Porchietto – che avrebbe le caratteristiche, come confermato anche da un recente sondaggio, per andare oltre il classico perimetro del consenso dei partiti del centrodestra torinese.

Lo spirito propositivo e la coesione tra Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega sono, dunque, un ottimo prerequisito per costruire finalmente l’alternativa di buon governo per Torino e la sua Città Metropolitana.

Torino 2021, c’è bisogno di Politica (*su Lo Spiffero, 3 dicembre 2020)

Negli ultimi giorni il dibattito in Città è ruotato attorno ad alcuni fatti, che cercherò di mettere in ordine e che, a mio avviso, sono strettamente legati tra di loro.

Il primo, la rinuncia alla candidatura a sindaco per il centrosinistra da parte del rettore del Politecnico Guido Saracco; poi, una serie di interventi sui media locali, caratterizzati dal leit motiv secondo cui in questi anni la nostra area metropolitana sarebbe stata caratterizzata da una classe dirigente non all’altezza, specie nel mondo politico; successivamente, la presentazione del XXI Rapporto “Giorgio Rota” su Torino, a cura del Centro Einaudi, che ha evidenziato come in fatto di attrattività – sia con riguardo alle persone, sia in termini di attività d’impresa – nell’ultimo decennio il nostro capoluogo abbia perso notevoli posizioni nei confronti delle altre metropoli del nord, con tutto ciò che ne è conseguito dal punto di vista della (de)crescita economica; ultimo, ma non meno importante, l’esito di un sondaggio commissionato dal notaio Ganelli relativo agli orientamenti elettorali in vista del prossimo turno amministrativo della primavera 2021, che Lo Spiffero ha pubblicato proprio ieri in via esclusiva.

Qual è il legame tra gli aspetti che ho testé elencato? A me sembra evidente una straordinaria richiesta di politica, nel senso più alto del termine. Quella che sa analizzare lo scenario, perché ha esperienza amministrativa; quella che individua le priorità e che trova un punto di equilibrio fra i vari interessi, alcune volte anche fra loro contrapposti; quella che valorizza i punti di forza, che ricerca soluzioni ed è orientata all’execution, e non alla mera elencazione delle criticità, che peraltro sono ormai ben note; quella, infine, che si forma attraverso il processo, spesso cruento e sì, anche meritocratico, della gavetta nelle sezioni e nelle aule consiliari.

La stessa richiesta di politica e di “politici” che emerge proprio dall’ultimo dei fatti che ho elencato all’inizio: il sondaggio per la contesa elettorale di Torino 2021. Un dato, infatti, balza, subito agli occhi: la notevole performance in termini di visibilità, che poi facilmente si può tramutare in grado di fiducia, nei confronti dei potenziali contendenti per la candidatura a sindaco fra chi in questo momento della propria vita professionale si occupa in modo prevalente di politica, a scapito dei vari esponenti della cosiddetta società civile. Ciò sia per il centrosinistra (e il ritiro dalla corsa di Saracco è un indicatore significativo, in tal senso), sia per il centrodestra. Che dovrebbe, per una volta, anticipare i tempi e far scendere in campo portabandiera e squadra per la Città in netto anticipo rispetto alla sinistra del partito di Grillo e al centrosinistra a guida PD, oggi di fronte al bivio se replicare anche qui la maggioranza giallorossa o andare ognuno per la propria strada, gli uni attivando le loro consultazioni farlocche sul web, gli altri attraverso le primarie ai gazebo.

E proprio leggendo quei dati dal mio punto di vista, da esponente del partito che ha fondato il centrodestra, un ulteriore elemento che emerge dal sondaggio è la tuttora alta propensione dei torinesi al cambiamento, sia rispetto alle giunte di centrosinistra che si sono succedute ininterrottamente dal 1993 al 2016, sia rispetto all’attuale monocolore Cinquestelle, sia, infine, rispetto a quello che potrebbe essere la sinistra del futuro, frutto dell’accordo PD-M5S. Un’occasione, dunque, da cogliere per la coalizione del centrodestra cittadino, come ha giustamente sottolineato proprio in questi giorni il Presidente Berlusconi nei suoi colloqui con i vertici del mio partito a Torino e in Piemonte.

In un contesto del genere, dunque, la notorietà del “politico” Claudia Porchietto, alta anche fra gli elettori degli schieramenti avversi, potrebbe rappresentare quel valore aggiunto decisivo per alimentare le chance di vittoria del centrodestra, specie al ballottaggio, dove il vincolo con il partito viene meno e l’elettore tende a far prevalere il giudizio sulla persona. Sia del singolo, sia della squadra che vorrà con sé. Non solo: anche il dato dei partiti al primo turno, che storicamente nel campo del centrodestra fa prevalere la sommatoria dei voti delle singole liste, è sostanzialmente coincidente con quello della candidata indicata nel sondaggio. Infine, il mercato elettorale degli indecisi, soprattutto fra gli ex elettori dell’attuale sindaco, che rappresenta un bacino interessante per uno schieramento che, se unito, a Torino può e deve farsi trovare pronto all’appuntamento con il cambiamento, non avendo mai il centrodestra avuto l’onore e l’onere di amministrare Palazzo Civico (e Palazzo Cisterna).

Come spesso abbiamo detto in passato, vincere le elezioni è però solo il primo tempo di una partita ben più lunga e ben più difficoltosa. E’ necessario “vincere” anche il secondo tempo, cioè la sfida del governo, in questo caso del Comune di Torino e della sua Città Metropolitana. Con un programma credibile, con obiettivi realizzabili e mettendo in campo una “visione” per il futuro di questo nostro territorio. Il centrodestra in generale, e Forza Italia in particolare hanno tra le proprie file politici in grado di farlo, sia in termini di leadership, sia in termini di squadra a supporto, sia in termini di capacità di elaborazione di idee? Forse con un po’ di presunzione, dopo aver vissuto tutta la stagione del mio partito a Torino e nella sua provincia dal 1994 ad oggi, posso affermare che sì, una classe dirigente con quelle caratteristiche si è formata, seppur nella stragrande maggioranza dei casi attraverso ruoli all’opposizione. Ma dopo aver vinto, e aver dimostrato di saper ben governare città un tempo inespugnabili, come ad esempio Orbassano, è il momento di mettere alla prova quella classe dirigente anche a Torino, guardando principalmente al nostro interno.

Scostamento, una vittoria del Presidente Berlusconi e di Forza Italia

Oggi Forza Italia e il centrodestra unito hanno scritto una pagina importante, votando in modo compatto un nuovo scostamento di bilancio che andrà totalmente a sanare quella che Renato Brunetta nel suo intervento in Aula ha definito una “frattura etica”, non solo economica quindi, tra chi è garantito e chi non lo è.

Le conseguenze economiche e sociali della pandemia, infatti, rischiano di minare la coesione della nostra comunità nazionale, se non affrontate con tutti gli strumenti necessari: questo scostamento, con risorse che dovranno essere totalmente indirizzate al risarcimento dei lavoratori autonomi, dei professionisti e delle partite IVA e ad una moratoria fiscale di almeno sei mesi, ha proprio questa finalità.

E’ una vittoria del Presidente Berlusconi, che si è assunto per primo la responsabilità della mediazione, mostrandosi, ancora una volta, uno statista indiscusso. Ed è una vittoria di Forza Italia, che si è assunta ancora una volta il ruolo di collante dell’intero centrodestra.

“Studenti e DAD, rispetto e non paternali” (su “Lo Spiffero” del 21 novembre 2020)

Nel ripercorrere le tappe che hanno portato, in questi giorni, tanti studenti a seguire l’esempio delle due studentesse dell’Istituto “Niccolò Tommaseo” – che, per prime, hanno manifestato il loro dissenso rispetto alla decisione del governo di chiudere le scuole, posizionandosi davanti all’ingresso della scuola per svolgere la didattica a distanza – sono andato a rileggermi il testo della lettera inviata ad Anita e Lisa dalla loro dirigente scolastica.

E ne ho tratto alcune considerazioni. La dirigente, infatti, probabilmente si è sentita in dovere di segnalare la sua contrarietà, certamente per il suo ruolo nell’istituzione scolastica e non per il fatto che in questa fase si trovi anche a svolgere il ruolo di Consigliere comunale a Torino per uno dei partiti attualmente al Governo.

Allo stesso tempo, però, è il tono un tantino paternalistico e piuttosto sentenzioso che mi ha destato perplessità, specie laddove alle due giovani è stata rimproverata la violazione sia di una norma governativa, sia della stessa Costituzione. Con il risultato di trasformare la loro presa di posizione libera, e intelligentemente critica, in un atto riprovevole di disobbedienza civile, nonché potenzialmente dannoso per l’interesse collettivo alla salute. Mi chiedo francamente dove si possa ravvisare tutto ciò nel comportamento di Anita, di Lisa, di tutte le studentesse e di tutti gli studenti che in questi giorni hanno deciso di segnalare la propria volontà di tornare a scuola in presenza con l’iniziativa denominata “School for future”…

Non solo. Il rispetto per le regole e il senso della responsabilità, richiesti a queste ragazze e questi ragazzi, ed auspicato come comportamento corretto di ogni cittadino, bisognerebbe mostrarlo prima di pretenderlo. E bisognerebbe che a mostrarlo fosse in primo luogo chi ha avuto almeno sei mesi per organizzare la ripresa delle lezioni nelle Aule scolastiche e nelle Università, sprecandoli ad “inseguire” l’alzata di ingegno dei banchi a rotelle.

Proprio su questo tema, sono tanti i modi in cui rispetto e responsabilità avrebbero potuto tradursi in azione. Ad esempio, considerando non solo la messa in sicurezza e la predisposizione di regole applicate all’utilizzo dell’edificio in cui si realizza la didattica, ma anche il fattore importantissimo del trasporto degli studenti. Il rispetto per i giovani, per il diritto e soprattutto per la necessità dell’istruzione, avrebbe dovuto portare, una volta compreso l’errore, a rimediare, magari intensificando la rete dei trasporti con l’affiancamento del privato al pubblico. E posizionando termoscanner fissi agli ingressi degli istituti scolastici, nonché organizzando hotspot dedicati al personale scolastico e agli studenti per il tracciamento rapido di infezioni da Covid-19: insomma, cercando in ogni modo una soluzione per consentire la presenza a scuola.

È la mancanza di rispetto che ha portato, invece, alla soluzione più immediata, superficiale, comoda da gestire: chiudere le scuole e tornare alla didattica a distanza, con tutti i problemi che conosciamo. E poi mi sembra quanto meno contraddittorio che si parli di rispetto dei principi della democrazia e poi si chieda sostanzialmente ed unicamente obbedienza. Non sa tanto di democrazia esternare la propria opposizione, in maniera forse eclatante in questo caso, ma pacata e rispettosa? E perché la potestà di dettare imposizioni così limitanti non dovrebbe essere fronteggiata dal diritto di discuterle, di criticarle e anche di migliorale insieme? Non sempre e non del tutto ha ragione chi scrive le regole. In questo senso, aveva invece piena ragione chi sosteneva, alle origini dello Stato moderno, che, se il diritto è giusto per definizione, non sempre le leggi lo sono.

Forza Italia, distinti e distanti dal Governo, ma sempre dalla parte dell’Italia

Ho aderito a Forza Italia nel 1994 perché solo la discesa in campo del Presidente Berlusconi ha consentito la nascita di una coalizione di centrodestra competitiva per il Governo del Paese, sulla base di valori e programmi condivisi. Dopo quasi venticinque anni di impegno sul territorio sono stato eletto alla Camera dei Deputati, vincendo un collegio uninominale storicamente di sinistra e, quindi, fra i più difficili in Piemonte.

La mia storia, politica e non solo, mi pone dunque in netta contrapposizione a chi oggi si trova al Governo nazionale senza un preciso mandato popolare, ma solo a seguito di un accordo parlamentare frutto della spregiudicatezza e del trasformismo di chi era nato sull’onda di un insulto e voleva “aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno”.

E proprio perché mi ritengo saldamente nella metà campo del centrodestra, penso che la situazione di profonda crisi sanitaria, economica e sociale dell’Italia al tempo della seconda ondata del Covid sia da affrontare avendo come pensiero fisso il bene dell’Italia, che viene sempre prima di ogni valutazione di convenienza partitica o personale. E’ la posizione del Presidente Berlusconi. E’ la posizione di Forza Italia, che ha niente a che vedere con il sostegno all’attuale Governo ma che, al contrario, risponde alla necessità di limitarne i danni, proponendo in vista del lavoro in Parlamento per la Legge di bilancio alcune misure per la tutela di chi in questa fase non è garantito e si trova esposto a grandi difficoltà economiche a causa della pandemia.

Mi sbaglierò, ma l’eccezionale negatività del momento impone di occuparsi meno dei sondaggi e più delle soluzioni da mettere a disposizione dell’agenda politica, pur rimanendo “distinti e distanti” da un Governo che non ci rappresenta e che non rappresenta la maggioranza degli Italiani.

Superbonus 110 per cento ancora ai box, perché l’eccesso di burocrazia ne frena l’utilizzo

L’audizione odierna del Direttore dell’Agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini in Commissione bicamerale di Vigilanza sull’Anagrafe Tributaria ha evidenziato, ancora una volta, come il Superbonus 110 per cento, introdotto con il decreto cosiddetto “rilancio”, sia ancora ben lontano dall’obiettivo di promuovere la riqualificazione energetica e antisismica del patrimonio immobiliare degli italiani.

Ne è la prova la recente realizzazione di un’apposita area tematica sul sito dell’Agenzia, che però, oltre a raccogliere la normativa, le circolari, le FAQ, i link utili, non prevede una sezione dedicata agli operatori del settore, che potrebbe essere utile per dirimere in breve tempo eventuali dubbi interpretativi, mettere a fattor comune gli esiti degli interpelli e velocizzare, così, l’avvio delle pratiche. Allo stesso tempo, il fatto che il Direttore preannunci la pubblicazione “nelle prossime settimane” di una nuova circolare esplicativa rende l’avvio di quella che dovrebbe essere una grande stagione di interventi sul patrimonio edilizio ancora incerto, a quasi cinque mesi dall’istituzione del Superbonus 110 per cento.

Come ho ribadito nel corso del mio intervento ci troviamo ancora di fronte ad un eccesso di burocrazia che frena il ricorso alla misura, come pure è emerso in un recente sondaggio, secondo il quale ben 3 milioni di italiani avrebbero già rinunciato all’opportunità per la quantità di documenti da produrre, mentre altri più di 6 milioni starebbero per fare la stessa cosa, non avendone compreso il funzionamento. Di fronte a questi numeri, il minimo che si possa fare in occasione della Legge di bilancio è prorogare l’efficacia del provvedimento per almeno altri tre anni, derogando il termine del 31 dicembre 2021 attualmente previsto dalla Legge.