Una premessa. Siamo cittadini di un Paese che ha avuto le città protagoniste della sua storia istituzionale, sociale ed economica. Città capitali di aree territoriali regionali che, pur attraverso epocali trasformazioni dell’assetto politico generale, hanno continuato ad essere riconosciute e rispettate come beni patrimoniali di una cultura civica consolidata nel lungo periodo.
Da questo punto di vista, ha ragione chi sostiene che lo scenario urbano è un mondo al centro del quale la figura del sindaco, specie quando si cimenta con il governo di una grande città come Torino, si pone come sintesi delle più alte e complesse azioni di governo, essendo a tutti gli effetti esecutore di politiche di rilevanza nazionale.
Parto da questa considerazione, perché è da qui che si può osservare con una certa obiettività il procedere dei preparativi per la campagna elettorale comunale del prossimo autunno, più accidentato del solito a causa delle restrizioni dettate dalla pandemia, ma reso ancora più strategico dal fatto che l’intero prossimo quinquennio amministrativo sarà segnato dalle progettualità messe in atto dall’innesto delle politiche locali sugli assi portanti del Piano nazionale di ripresa e resilienza.
Al momento si sta parlando più di candidati che di programmi, più di persone che di idee. Il che non è male di per sé, purché non si dimentichi che sono le idee a far respirare la società e che di conseguenza i prescelti alla carica di sindaco sono in dovere di rappresentarle con la massima chiarezza e coerenza. Di fronte ai candidati dei diversi schieramenti non si è mai imparziali: sono le regole del gioco elettorale a far scattare in noi (qualora non già aderenti e attivisti di un partito) reazioni di parte, ma sono queste stesse regole ad indurci all’ascolto delle proposte che arrivano dalla coalizione a cui non ci sentiamo di appartenere.
Da questa angolazione di uomo di parte a pieno titolo, figlio di un territorio che ho l’onore di rappresentare in Parlamento, ritengo doveroso sottoporre al candidato a primo cittadino di Torino per il centrodestra Paolo Damilano temi, riflessioni e alcune domande, con la sola intenzione di far discutere con noi la città, ora che le forti correnti di trasformazione dell’opinione pubblica, rinforzate dai drammatici eventi dell’ultimo anno, potrebbero sbloccare dal suo arroccamento il fronte partitico che ha governato Torino dal sindaco Novelli in poi, rendendo plausibile un deciso cambio di schieramento alla guida della capitale subalpina e del suo vasto e composito territorio metropolitano.
La Torino di oggi è il distillato di una tradizione custodita e aggiornata sotto l’impulso della sua grande capacità di fare innovazione. Ma negli ultimi decenni il dialogo tra tradizione e innovazione si è fortemente indebolito. Su quali ne siano state le cause, su chi abbia la responsabilità prevalente di “aver fermato Torino” – come hanno scritto Bagnasco, Berta e Pichierri – il dibattito è in corso soprattutto tra gli studiosi e non intendo affrontarlo in questa sede. Mi limito ad osservare i sintomi di questo disagio, di circoscriverli e di stimolare dei ragionamenti sulle possibili terapie da adottare.
Andiamo per (pochi) punti, senza la pretesa che siano esaustivi.
Il primo. La dimensione metropolitana di Torino si è fortemente contratta negli ultimi decenni e non solo nel paragone con Milano. È un problema fortemente localizzato, di “medicina interna”, dovuto innanzitutto al decremento demografico. Ma come contrastare allora la dinamica che porta la nostra città, secondo un recente studio della Fondazione Agnelli, a perdere 500 residenti al mese, mentre Milano ne acquisisce 1000? Cosa fare per indurre ad abitare o riabitare Torino?
Secondo punto. La storica capacità di produzione manifatturiera, con la mutazione del DNA Fiat, prima con FCA e adesso con l’ingresso in Stellantis a evidente trazione francese, lascia irrisolti – e rischia di aggravare – problemi di ordine occupazionale, che vanno affrontati a viso aperto con concreti strumenti risolutori. Al tempo stesso dà spazio a forme e processi produttivi decisamente originali e tecnologicamente avanzati. Sarà il Manifacturing and Technology Center, con la regia concertata di Università, Politecnico, Unione Industriale e Camera di Commercio a fornire nuova sostanza all’epocale processo di sostituzione industriale in corso? O l’Istituto nazionale per l’Intelligenza artificiale? Che ne sarà, però, del lavoro manuale rispetto al lavoro digitale? Che ne sarà della manodopera operaia e artigiana, che continuerà a coesistere accanto alle competenze di ingegneri e informatici? Non mancano, in un visione generalizzata, progetti significativi sul versante dell’integrazione tra impresa e socialità: la Borsa dell’Impatto Sociale, che avrà sede dove un tempo c’era la Borsa Valori, attuerà interventi di social investing, che avranno bisogno di figure professionali adeguate.
Terzo punto. Si parla di formazione a tutti i livelli e non solo a Torino. Ma accanto ai percorsi abilitanti a professioni di alto profilo, soprattutto per rispondere ai fabbisogni del privato e di cui si farebbe carico la struttura accademica con il Competence Center, occorre investire per contribuire anche alla formazione di classe dirigente pubblica, sia nei ruoli politici elettivi, sia in quelli del funzionariato e della dirigenza. Lo snellimento della burocrazia, su cui il Governo Draghi punta (anche) per obblighi europei, passa attraverso un’etica della responsabilità, che nella nostra città si è manifestata istituzionalmente nell’unificazione della penisola. In questo senso, si ritiene prioritario lavorare per dotare Torino di una sede decentrata della Scuola Nazionale dell’Amministrazione, che già a Caserta ha un suo importante presidio per l’intero Mezzogiorno?
Quarto punto. Sanità, servizi sociali, sicurezza sono gli snodi di un unico intervento – quello sulla salute pubblica – che dovrebbe articolarsi in politiche di settore capaci di rispondere a bisogni collettivi imprescindibili. Soprattutto sul tema della sicurezza il dibattito politico più recente ha trovato il suo cavallo di battaglia, facendone però quasi esclusivamente un argomento di ordine pubblico. Argomento che ha tutte le ragioni per imporsi all’attenzione fattiva del prossimo sindaco di Torino, ma che occorre declinare anche nelle sue componenti strutturali sanitarie e di complessivo Welfare urbano e metropolitano. Il futuro Parco della Salute, della Ricerca e dell’Innovazione di Torino risponderà a queste necessità? La sua offerta di salute sarà in grado di affrontare con efficacia le nuove emergenze individuali e collettive? Inoltre, da valorizzare in termini di modello di sviluppo vi è la sanità di eccellenza: che ne sarà, ad esempio, dell’ospedale oftalmico, le cui prestazioni integrate dovrebbero incentivare logiche di riqualificazione e di unitarietà in una sola sede, piuttosto che scelte orientate alla parcellizzazione dei suoi servizi in più strutture ospedaliere, ponendolo a rischio di cancellazione?
Quinto punto. Basilare è una visione trasversale, un collante che metta a sistema le interrelazioni tra infrastrutture, edilizia, attività economiche, mobilità e logistica. Quali saranno le parole-chiave del prossimo sindaco? Ricostruzione e riqualificazione? Forse la sostenibilità non basta, se significa compiere in modo più garbato gli stessi errori del passato sulla base del principio del “non arrecare danni significativi”. L’impressione più forte è che la partita decisiva si giocherà sul campo dell’interazione tra urbanistica cittadina e pianificazione metropolitana, tra un nuovo piano regolatore e gli strumenti di programmazione della Città Metropolitana, come il piano strategico recentemente approvato. Terreno su cui il rapporto tra centro, periferie e provincia sarà determinante per generare quella “grande Torino”, città-regione, su cui bisogna cominciare a pensare senza troppe reticenze sabaude, visto che altrove da tempo si stanno gettando le basi operative e normative per la “grande Milano” e per “Roma Capitale”.
Concludo con una proposta: organizzare in un luogo simbolo della laboriosità torinese (penso alle OGR) una conferenza programmatica, articolata per tavoli tematici, da cui estrarre un progetto di sintesi, in cui si riconoscano tutte le forze di questo schieramento, dai partiti ai movimenti civici decisi a costruire un’alternativa di governo al centrosinistra e al partito di Grillo.
Se dovessi scegliere un titolo, forse dal sapore antico, parlerei di “Stati generali del centrodestra di Torino”, da svolgersi proprio in concomitanza con le elezioni primarie del PD, e cioè il 12/13 giugno prossimi. Obiettivo: parlare alla città con franchezza di come la si immagina per i prossimi trent’anni. E su questa piattaforma di idee pragmatiche e di discontinuità rispetto al passato e al presente far capire – non con una competizione fra candidati (modalità che peraltro non mi sento di criticare, anzi!) ma con un lavoro sulle proposte e sui progetti – che Torino può essere uno dei luoghi migliori in cui le innovazioni possano avere successo.
E’ vero, c’è molto da fare: per Torino serve una grande riparazione.
* intervento su Lo Spiffero nella rubrica “L’Opinione”