Meglio essere al primo posto in un sistema debole o all’ultimo posto in un sistema forte?
Sullo sfondo di questa domanda un po’ manichea, nella fase politica che dura da trent’anni, Torino ha spesso trasmesso l’idea di volersi arroccare su un primato autoreferenziale e indifferente all’erosione che, per effetto dello sganciamento dalla città fordista, si stava consumando nella mentalità e nelle certezze economiche e sociali, sia della città stessa, sia del suo territorio provinciale.
Ora che questa fase è giunta (forse) al capolinea e la volontà di mantenere una prima posizione nel concerto delle metropoli europee si fa vitale per immaginare un futuro, il tema all’ordine del giorno non può che essere il riequilibrio territoriale, e cioè la connessione tra città e provincia. Processo questo che trova, tuttavia, nella Città metropolitana uscita dal cappello della legge Delrio, l’ostacolo di un’istituzione priva di peso specifico perché non legittimata nella scelta della sua governance dal consenso popolare.
In questo contesto, l’influenza del capoluogo sulla vasta area circostante si è manifestata, anche secondo il nuovo Piano strategico, sotto forma di “presenza coloniale”, percepita dai territori con il disagio dell’abbandono tipico dei figli non riconosciuti.
Qui sta il deficit della politica difficilmente superabile con le sole misure, per quanto impattanti, del PNRR. Qui, però, sta anche il terreno più fecondo per il dibattito e il confronto. Delineare misure per realizzare una transizione infrastrutturale, digitale, ecologica, partecipativa e rigenerativa dalla metropoli “diminuita” di oggi alla metropoli “aumentata” di domani è un esercizio necessario e suggestivo.
Credo sarebbe importante anche riconsiderare la forma della città e delle sue pertinenze territoriali, riconoscendo che il primo passo da fare è mettere mano ad un nuovo piano regolatore per Torino, perché quello del 1995, redatto in funzione dei settori centrali della città e della visione politica ritenuta in quel periodo strategica, si è poi mostrato di respiro non sufficiente a supportare il passaggio dalla grande manifattura al distretto del turismo, della cultura e dei servizi. C’è chi sottolinea a questo proposito che senza industria non c’è innovazione e che la sola transizione possibile per una città industriale è quella che porta dall’industria originaria all’imprenditoria originale e creativa, ma pur sempre basata su solidi apparati organizzativi e produttivi.
In seconda istanza, c’è bisogno di far valere le funzioni di programmazione e pianificazione che la legge istitutiva prevede per la Città metropolitana, in modo tale da concertare con gli altri poli urbani e le zone omogenee intercomunali una direttrice di sviluppo sui versanti dell’urbanistica, della mobilità, dell’alta formazione universitaria e amministrativa, del benessere e della sicurezza dei cittadini.
Superare il divario tra centro, periferie e territori dovrebbe essere l’obiettivo di un’unica politica di coesione, attraverso la messa in opera di interventi infrastrutturali non più rinviabili, quali la chiusura dell’anello tangenziale di Torino, il collegamento tra Caselle, l’alta velocità ferroviaria e i principali centri della provincia, una nuova stazione proprio sulla linea AV Torino-Milano in una città crocevia ferroviario come Chivasso, una linea metropolitana che si estenda a nordest e a sudovest della Città fino alla prima cintura, una connessione dati ultraveloce che metta tutti i territori alla pari.
Ciò significa andare ben oltre un generico policentrismo. Il territorio metropolitano è già policentrico: lo sono le periferie con le loro complesse identità di quartiere, così come i Comuni della prima e seconda cintura; altrettanto lo sono insediamenti come Pinerolo, Ivrea, Chivasso o Susa. Ciò che manca a queste centralità è il potere decisionale di investire in una logica di area vasta.
Certo non è facile immaginare una riforma, che non potrebbe attuarsi a Costituzione invariata. Tuttavia, se è un tema di attualità la proposta di trasformare Roma Capitale in città-regione, perché non estendere questa argomentazione ad altre Città metropolitane?
Non c’è metropoli europea di spicco che non si configuri istituzionalmente come regione urbana. Al confronto, per le metropoli italiane il destino di rimanere metropoli diminuite pare sormontabile solo a patto di dotarle di un’adeguata governance. E visto che il nostro Paese si è sempre identificato più nelle città che nelle regioni, l’esempio tedesco potrebbe aiutarci: Berlino, Amburgo e Brema sono città-regioni o per meglio dire città-stato. A Milano da tempo se ne parla. Perché non iniziare a parlarne anche a Torino, abbandonando per una volta l’understatement sabaudo?